PIAZZA, BELLA PIAZZA.

fotografia di Elena Brogliatto

foto di Elena Brogliatto

«La mentalità di mercato che si applica all’arte è letale. L’arte non è un’impresa commerciale. L’arte deve essere libera, l’artista è libero»: pensiero numero 1.

Sono parole pronunciate, fra tante altre, sabato 30 maggio, in piazza Castello a Torino, a una delle molte manifestazioni organizzate contemporaneamente in varie città d’Italia dai lavoratori dello spettacolo. O meglio da gruppi autonomi, tutti nati durante l’emergenza epidemica e tutti impegnati a rappresentare una categoria che, proprio di fronte a quell’emergenza, si è scoperta invisibile e ben poco – se non per nulla, a volte – tutelata.

Un’altra voce affermava che «siamo lavoratrici e lavoratori dello spettacolo e della cultura italiana, riuniti in un Coordinamento nazionale di realtà, collettivi e movimenti autonomi indipendenti, che si riconoscono negli art. 4, 9 e 33 della Costituzione Italiana, nella cultura etica del lavoro, nei suoi doveri e nei suoi diritti»: pensiero numero 2.

A Torino e in altre piazze, quel giorno, tale categoria provava insomma a trovare un’unione per avanzare con forza le proprie rivendicazioni; e provava a farlo “dal vivo”, dopo settimane di lavoro sul web. Le piazze del 30 maggio 2020, più o meno piene che fossero, rappresentano il primo esito del lavoro fatto da molti in sordina tramite le piattaforme virtuali durante l’emergenza epidemica: un risultato di cui, in qualche modo, hanno potuto – e/o avrebbero potuto e potranno – godere anche molti altri che avevano partecipato ben poco o per nulla alla “preparazione virtuale”. Un passaggio, questo, evidentemente prezioso. Questo mio racconto può parere superfluo, ma mira a riassumere l’accaduto anche a chi non fa parte della nostra categoria e magari non ne è a conoscenza; tale obiettivo ha un senso, che scopriremo nel corso del ragionamento.

Oltre al pensiero numero 1 e a quello numero 2, ne sono stati “detti” molti altri, in piazza: grazie alla molteplicità eterogenea delle rappresentanze presenti – oltre alla varietà della categoria stessa -, pareva, a tratti, che si stesse dicendo quasi tutto e il contrario di tutto; una confusione peraltro sincera e, ritengo, proficua. Un disordine utile, in quanto – a volerne fare valere alcune contraddizioni – intelligente.

Provo a mettere a confronto qualche contraddizione utile, per capire se e fino a che punto si potrebbe, forse, spingere sulla leva del disordine, facendone lievitare ancor di più l’intelligenza.

Teniamo bene a mente l’affermazione citata all’inizio (la numero 1, vale anche rileggerla) e confrontiamola con quest’altra, pure risuonata in quella piazza: «Il 19/05/2020 abbiamo inviato il Documento Emergenza alle Istituzioni, chiedendo espressamente di essere ricevuti con urgenza entro il 30/05/2020, per discutere su un reddito di continuità che traghetti il comparto culturale fino alla ripresa piena dei singoli settori e ne tuteli e garantisca l’esistenza, salvaguardando i rapporti di lavoro in atto, anche attraverso incontri politici e tecnici, quindi alla presenza di ministeri e INPS (…)».

Estrapoliamo ora due concetti, rispettivamente dal pensiero iniziale (numero 1) e da questo ultimo che ho citato (numero 3):

– «l’arte non è un’impresa commerciale»

– la necessità di salvaguardare «i rapporti di lavoro in atto».

È evidente che le due affermazioni cozzano fra loro: i rapporti di lavoro di cui si parla presuppongono l’esistenza di un’impresa commerciale; e dunque di una forza lavoro riconosciuta, di una retribuzione, di contratti da rispettare, di diritti e doveri sia per chi offre il lavoro sia per chi lo svolge.

Ecco la contraddizione più utile, di quel giorno. Contraddizione che in un lampo mi faceva piacevolmente scoprire la presenza, in quel momento intorno a me, di persone che ragionavano anche sulla crisi poetica – pure legata alla mercificazione scriteriata dello spettacolo – ben precedente l’emergenza epidemica e, già allora, affiancata a una crisi generale di sistema; e faceva ri-scoprire – a me, che sentivo risuonare in piazza quelle parole – preziose pentolate d’acqua calda. Karl Marx e Frederich Engels, nel loro saggio L’impegno del lavoro artistico nella società capitalistica risolvevano così la contraddizione per quanto riguarda il teatro: «Nei confronti del pubblico l’attore è un artista, ma nei confronti del suo impresario l’attore è lavoratore produttivo». Il problema è più complesso e esplode in tutta la sua potenza quando, ad esempio, le scelte dell’impresario, direttamente o indirettamente, fanno affievolire le possibilità di scambio energetico e immaginifico insondabili, incontrollabili e, a loro modo, rivoluzionarie, che sono insite nel rapporto instaurabile fra artista e pubblico. Ecco, dunque, la pentolata più utile che mi ha innaffiato in piazza: nel mondo dello spettacolo lo spirito dilettantistico può giovare al professionista. O, in senso più lato: un sistema si contamina anche dall’interno. Almeno, così può avvenire per il teatro. Proprio sul teatro intendo restringere l’analisi in questa parte del ragionamento, per essere sicuro di avere bastanti cognizioni e conforto esperienziale; ma sono certo che, per analogia e con le dovute precisazioni, si possano trarre conclusioni simili per le altre arti dello spettacolo. Il prezioso scritto di Giovanni Moretti Tra drammaturgia e spettacolo: la figura del dilettante (in “Storia del teatro moderno e contemporaneo”, vol. II, Giulio Einaudi editore, 2000) termina affermando che furono «i dilettanti, seppure d’eccezione, a rigenerare il teatro moderno». La pulsione dilettantistica – e dunque libertaria – è quella che più può esaltare la valenza empatica, la natura pedagogica del teatro e dello spettacolo e, in ultima analisi, favorire l’opera culturale attuabile per il loro tramite. Dobbiamo dunque diventare tutti dilettanti? No, si dovrebbe, forse, favorire (anche tramite sostegni illuminati, ma non proveremo, qui, a ipotizzare il dettaglio delle modalità) un dilettantismo reale, che non scimmiotti pedestremente quelle frange di professionismo – e sono ormai moltissime – svuotate di ogni profondità culturale, di sincerità di intenti, di coerenza rispetto alle idee su cui basano il proprio lavoro (laddove queste ultime ancora siano presenti); perché, se prosperasse quel tipo di dilettantismo, il professionismo ne trarrebbe un confronto e uno scambio vivificante, utile appunto a contaminare proficuamente il sistema entro il quale opera. E perché potrebbe pur sempre accadere qualcosa di analogo a quanto accadde alla fine del XIX secolo, quando l’impiegato della società del gas André Antoine, divenuto professionista, rivoluzionò il teatro moderno.

Cosa c’entra tutto questo con la piazza (e le piazze) e le proteste del 30 maggio 2020?

C’entra, perché la voce che fermamente “pronunciava” ai manifestanti in piazza Castello il pensiero numero 1, proseguiva così: «Solo da un paese dove la cultura è intesa come bene comune di prima necessità, nascono cittadini liberi e critici»; e perché la voce che con altrettanta fermezza dichiarava il pensiero numero 2, continuava con: «Ma siamo anche tutte le cittadine e i cittadini che hanno fame di cultura!».

C’entra, dunque, perché esiste la coscienza di quanto il nostro lavoro sia – o almeno dovrebbe essere o si spera diventi – quello di veri e propri operatori culturali, che inchiavardano alla loro professionalità artistica e tecnica la necessità di entrare profondamente in relazione con il resto della cittadinanza. E questo s’ha da fare, e si fa, con il concorso di tutte le figure coinvolte nelle attività dello spettacolo dal vivo e non solo: tecniche/i, amministratrici/ori, drammaturghe/i, musiciste/i, attrici/ori, sarte/i, costumiste/i, direttrici/ori, parrucchiere/i, truccatrici/ori, danzatrici/ori, registe/i, doppiatrici/ori, macchiniste/i, disegnatrici/ori luci… Una categoria segnata, evidentemente, da un’estrema eterogeneità. Di tale eterogeneità dovremmo capitalizzare appunto la somma contraddittoria più utile, quella di cui si ha precisa coscienza; quella che si accompagna all’assunzione di responsabilità individuale e collettiva e riesce a incarnare principi capaci di declinare intenti, diritti e doveri secondo un minimo denominatore comune; senza ledere l’imprescindibile prerogativa dell’autonomia individuale. C’è una complicazione ulteriore. L’eterogeneità della categoria si complica a causa di un bizzarro sconfinamento/sdoppiamento nella sfera datoriale: molti di noi in quella piazza, ad esempio, oltre che lavoratori dipendenti, eravamo pure datori di lavoro (a noi stessi e/o ad altri), in quanto fondatori e/o associati a compagnie o collettivi artistici (“padroni” di imprese, insomma, anche commerciali, che però sono in gran parte tagliate fuori dai sostegni del Fondo Unico per lo Spettacolo e in minima parte si avvarranno dell’incremento dello stesso a fronte dell’emergenza epidemica subita).

Al contrario di altre contraddizioni, che non ci servono a nulla (gli “armiamoci e partite” di volti assai noti dello spettacolo per mandare giovani attori a occupare i teatri, i richiami a non meglio definite bellezze da difendere, le maratone comiche sul web – in contemporanea alle manifestazioni in piazza – con l’iban stampigliato per versare generiche offerte ai lavoratori dello spettacolo in difficoltà, le rivoluzioni di cartapesta proclamate per interposta persona ecc.), tutte queste nostre contraddizioni “fisiologiche” possono invece essere una risorsa. Come fare, dunque, per trasformare questa nostra costitutiva massa contraddittoria in opportunità? Creiamo il nostro bagaglio culturale; se già l’abbiamo, integriamolo e aggiorniamolo senza sosta, a maggior ragione per il fatto che il nostro lavoro deve concorrere alla crescita culturale e alla costruzione di una cittadinanza “libera e critica”.

Un modo per costruire, ciascuno, il proprio bagaglio culturale, è quello di guardare il passato – traendo spunto sia dagli errori sia dalle mosse azzeccate – per riflettere sul presente e progettare il futuro; così da fare corrispondere azioni ai pensieri. La risorsa dei gruppi eterogenei nati in questi mesi è preziosa (e lo sarà, anche in futuro, per capillarizzare la raccolta delle istanze e rinnovare costantemente il confronto): guardando al passato, la creazione di questi gruppi è una mossa azzeccatissima, analoga – fatte le dovute proporzioni – alla creazione dei Consigli di fabbrica nel biennio rosso (1919-20) a Torino, ad opera, fra gli altri, del gruppo dell’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci e dell’anarchico Pietro Ferrero, allora meno che ventenni. Andando all’indietro di altri settant’anni, ritroviamo Karl Marx e Frederich Engels che, giovani anche loro, dapprima rifiutano di aderire alla Lega dei Giusti, un’organizzazione operaia clandestina; poi, quattro anni dopo, nel 1847, entrano a farne parte e ne mutano addirittura il nome (in Lega dei Comunisti) e il motto: da «Tutti gli uomini sono fratelli» a «Proletari di tutto il mondo, unitevi».

Non si tratta di imitarli, ma semplicemente di capire che fu una mossa azzeccata. E di considerare per analogia azzeccata, ad esempio, la mossa di molti dei componenti il gruppo AAU – Attrici Attori Uniti (cito la situazione di tale gruppo perché lo conosco, facendone parte, ma credo e spero che sia una tendenza diffusa), i quali si sono iscritti al sindacato SLC CGIL. L’ho fatto anch’io, pensando che (pesco da un post “sognato” qui, https://bit.ly/3eHLJmr) «ogni nuova iscrizione aumenta la rappresentatività del sindacato e, conseguentemente, la sua autorevolezza nei confronti delle categorie produttive e del governo; e che iscriversi a un sindacato significa anche – o soprattutto – potervi creare un fermento vitale, rimpolparne le fila, accrescere le possibilità future di confronto interno ed esterno; e, conseguentemente, la maturità di deleganti e delegati…». Quanto più le “realtà, i collettivi e i movimenti autonomi indipendenti” nati in questi mesi,  incanaleranno le proprie idee e la propria forza – anche, appunto, tramite l’adesione dei singoli – nel lavoro pregresso e in atto di un organismo che ha canali di interlocuzione già avviata, quale il Sindacato; tanto meno si verificherà, a mio parere, una pericolosa dispersione di energie.

Un altro modo per costruirsi un bagaglio culturale, accrescendo quello collettivo, è allargare lo sguardo sul presente, secondo l’idea per cui tutto riguarda tutti; questi, fra molti altri, i vantaggi possibili che se ne possono trarre:

– lo sguardo sulla condizione degli altri rende più oggettivo lo sguardo sulle proprie condizioni;

– la solidarietà innesca solidarietà.

Propongo dunque ad AAU – Attrici Attori Uniti, ai Coordinamenti regionali dei lavoratori e lavoratrici dello spettacolo e a tutti i gruppi di base nati in questi mesi di inserire nei documenti programmatici che stanno stilando o stileranno, fra le manifestazioni di principio, quella secondo cui «Siamo solidali con ogni altra categoria di lavoratori ascrivibile alla classe del proletariato contemporaneo (quale, ad esempio, la categoria dei braccianti – quelle/i dei campi, degli ospedali, delle rsa, della scuola, delle fabbriche, della grande distribuzione, della logistica, ecc – e di chiunque abbia reddito da lavoro dipendente o indipendente che stia sotto una certa soglia); e con ogni categoria sociale (quali, ad esempio, quelle dei bambini e degli anziani) per la quale si possano verificare difficoltà o addirittura impossibilità nell’esercizio dei diritti costituzionali, a cominciare da quelli imprescindibili e inalienabili».

Sarebbe utile e positivamente spaventoso, se al prossimo sciopero indetto dai braccianti  “dei campi” (cui è stata concessa una “cittadinanza a tempo determinato” di sei mesi, così da consentirne lo sfruttamento, salvifico per la filiera ortofrutticola), partecipassero molti lavoratori dello spettacolo (circa cinquanta anni fa, in questo nostro paese, fecero una cosa analoga gli studenti con gli operai). Lo sarebbe pure se solidarizzassimo con iniziative tese a evidenziare la situazione dei bambini, che durante l’emergenza epidemica sono stati privati totalmente del diritto allo studio (e, conseguentemente, pure dell’incontro con i propri coetanei), mentre ci si ingegnava con successo su come inglobare l’industria bellica fra le attività essenziali da non bloccare.
Si potrebbe iniziare dai bambini e dai braccianti, sino, appunto, a chiunque abbia reddito da lavoro dipendente o indipendente che stia sotto una certa soglia; per andare poi oltre, fino agli anziani.

Cosa c’entrano gli anziani?

Ecco, in una canzone intitolata Piazza, bella piazza, a un certo punto Claudio Lolli cantava:

“Ci passò tutta una città
calda e tesa come un’anguilla,
si sentiva battere il cuore,
ci mancò solo una scintilla;
capivamo di essere tanti
capivamo di essere forti,
il problema era solamente

come farlo capire ai morti”.

Nella prossima nostra piazza, propongo di avere un pensiero anche per gli anziani: in questa improvvisa grande difficoltà, che per assurdo ha il merito di averci fatto scoprire un’appartenenza comune, molti di loro sono stati assassinati grazie a decisioni politiche prese da frange di una classe dirigente che nessuna comprovata incompetenza dovrebbe potere assolvere.

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